Carbone, nomadi, tende
#25 Mappe - Mongolia 🇲🇳: l'asse Cina-Mongolia sta mettendo a rischio la tipica figura del pastore nomade mongolo. Ma parla anche di carbone, e di quanta fatica facciamo ad abbandonare le fonti fossili.
Ciao, benvenuta/o a una nuova puntata di Mappe, la newsletter che ti parla di storie, culture e persone. Un Paese alla volta.
Proprio poche ore fa regalavo a un mio caro amico per Natale la scratch map, una mappa da appendere al muro e da grattare ogni volta che si visita un nuovo Paese. Ora, non so quanti Paesi hai visitato finora ma vedere in maniera tangibile che gli Stati di tutto il mondo sono 206 e io sono a meno del 10% mi ha fatto impressione. Soprattutto considerando che mi manca tutto ciò che non sia Europa.
Uno dei viaggi che inserirei in una personalissima top-10 è quello che corre lungo la Ferrovia Transmongolica, dalla Russia alla Cina più profonda, passando per la Mongolia. Oggi parliamo proprio dello Stato incastonato tra Russia e Cina, e non potevo non chiedere aiuto a Pietro Regazzoni, consigliere comunale di Lecco e che pochi anni fa ha avuto la fortuna di visitare un Paese così remoto. Oggi partiamo da Ulan Bator, per parlare di COP27, Mongolia e carbone. E prova pure a indovinare gli altri nove viaggi che vorrei fare.
COP27: siamo in ritardo
Facciamo fatica, davvero tanta fatica, a staccarci dal carbone e le altre fonti fossili.
Circa un mese fa si è tenuta la COP27 a Sharm El-Sheikh, la conferenza annuale delle Nazioni Unite sulla crisi climatica, che da anni riunisce i Paesi del mondo attorno a un tavolo e obiettivo comune: mantenere l’innalzamento della temperatura globale a un massimo di +1.5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali.
Tanti esperti sono già convinti che non si riuscirà a restare entro questo limite, con inevitabili conseguenze drammatiche per tante aree del mondo già oggi sottoposte a dure condizioni di vita, ma al momento l’obiettivo è ancora vivo e ufficialmente perseguito da tutti i Paesi. Per raggiungerlo è necessario arrivare al 2050 con un obiettivo ancor più ufficiale e chiacchierato: la neutralità carbonica o net zero carbon, vale a dire un perfetto equilibrio tra ogni tonnellata di Co2 emessa e ogni tonnellata di Co2 rimossa dall’atmosfera.
Non riusciamo a dimenticare il carbone
Senza addentrarci nel tema della compensazione delle emissioni di carbonio, oggi ci basta riconoscere che i combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale) hanno prodotto tre quarti dell’aumento delle emissioni di Co2 negli ultimi vent’anni. Il tortuoso viaggio verso la neutralità carbonica e l’aumento della temperatura sotto il +1.5 non passa, dunque, solo dal ruolo sempre più centrale delle energie green, ma anche dalla capacità di ridurre il protagonismo delle fonti fossili, autentico motore mondiale dall’epoca industriale in poi.
Ecco, su questo aspetto stiamo facendo estremamente fatica. Fa sorridere che la COP di quest’anno si sia tenuta in Egitto, e quella del prossimo anno sarà a Dubai: due degli scenari dove il petrolio e le fonti fossili sono stati e sono tuttora il vettore principale di crescita, e dove inevitabilmente ci sono fortissime resistenze all’abbandono delle fonti fossili, che rappresenta un potenziale baratro per questi Paesi e tutti gli altri del Medio Oriente, vero e proprio pozzo petrolifero mondiale.
Non è un caso che, come successo nella COP26 di Dublino, anche quest’anno non si è riusciti a mettere nero su bianco, sul documento finale della conferenza annuale, un programma di abbandono delle fonti fossili: se da un lato la COP27 egiziana ha avuto il merito di istituire per la prima volta un fondo loss & damage, un fondo per i danni e le perdite dettate dalla crisi climatica che comporta una serie di compensazioni, dall’altro si esce nuovamente sconfitti sul fronte phase out carbon.
Ancora una volta non si parla chiaramente dell’abbandono delle fonti fossili, ma solo di “graduale riduzione del carbone”: il termine ‘graduale’ e il mancato coinvolgimento di petrolio e gas la dice lunga su quante resistenze siano presenti attorno a questo tema. Qui il NY Times parla in maniera esplicita di come l’Arabia Saudita sia tra i Paesi più aggueriti nel mantenere ancora la centralità delle fonti fossili, e per ora la sua linea è quella che ha avuto la meglio anche nella conferenza di Sharm El-Sheikh. La presenza dei Paesi del Golfo e della Russia ha giocato un ruolo fondamentale nel frenare la spinta verso un accordo che bandisse il ricorso ai combustibili: una grande, ennesima occasione persa, dove tra le altre cose il nuovo governo italiano è stato piuttosto assente.
Mongolia e carbone
Sono voluto partire da una panoramica su carbone e fonti fossili perchè nelle ultime settimane mi sono imbattuto in due notizie piuttosto scioccanti, rispetto alla direzione da assumere per limitare l’aumento della temperatura globale: il Regno Unito ha deciso di aprire la prima miniera di carbone dopo 30 anni, in un progetto che costerà 165 milioni di sterline e produrrà ogni anno 400mila tonnellate di gas serra nell’atmosfera; Mongolia e Cina, invece, hanno inaugurato una nuova tratta ferroviaria per portare in Cina il carbone presente in enormi quantità in Mongolia. Benissimo, no?
La Mongolia, e soprattutto la regione Inner Mongolia - area autonoma della Repubblica Popolare Cinese -, è ricchissima di carbone. Al carbone si lega una recentissima ondata di proteste popolari contro il governo mongolo, probabilmente colpevole delle sparizione di fondi pubblici pari a 12.8 miliardi che derivano dall’esportazione di carbone verso la Cina. Il carbone pesa infatti il 25% sul PIL mongolo, e la Mongolia esporta ben l’86% delle sue risorse di carbone al suo vicino: la Cina.
Questo tema non è solamente rilevante per quello che significa nell’economia climatica mondiale, ma ha forti risvolti anche sociali e culturali come mi spiega Pietro, che ha attraversato l’Inner Mongolia prima di raggiungere Pechino:
Le conseguenze della tratta del carbone riguardano una serie di cambiamenti culturali e sociali che hanno interessato l’Inner Mongolia e altre aree mongole sul confine con la Cina. Da anni infatti l’influenza cinese sulla Mongolia è fortissima e non solo per il carbone: basti pensare che in Inner Mongolia, in passato regione speciale mongola, oggi il governo cinese ha imposto l’adottamento della lingua cinese: un cambiamento sostanziale visto che storicamente quest’area era sempre stata attraversata dai nomadi mongoli.
Nomadismo e modernità
La Mongolia è da secoli la patria del nomadismo: un nomadismo non errante, ma una scelta consapevole che ancora oggi coinvolge circa un terzo della popolazione mongola. I pastori nomadi mongoli sono fortemente legati alla terra e a ciò che offre un territorio così arido e sterminato, dominato dalla steppa. Tutto questo si scontra con il treno della modernità, che per ora ha raggiunto quantomeno la capitale Ulan Bator ma che a lungo andare rischia di mettere a repentaglio lo storico, radicato nomadismo mongolo:
Ho vissuto per una settimana insieme ai nomadi mongoli, e gli stessi pastori parlano di un aperto contrasto tra la tradizione del nomadismo e il nuovo indirizzo economico del Paese. Se dalle attività agricole si passa sempre più all’estrazione mineraria, e se la Cina non farà altro che accrescere la sua influenza, è inevitabile che la tipica vita del pastore nomade mongolo sia sempre più a rischio.
Lo scorso gennaio, la Cina ha annunciato di aver portato a termine la prima fase della realizzazione della nuova centrale a carbone a Ordos, in Inner Mongolia. Il progetto prevede la costruzione di un impianto che rappresenta una delle più grandi centrali elettriche a carbone in costruzione in Cina. La prima unità è in funzione dal dicembre 2021, le ultime due dovrebbero essere operative entro il 2025. A servizio dell’impianto è stata costruita una linea ferroviaria lunga sette chilometri che collega Mongolia, Inner Mongolia e Cina centrale.
E la distanza tra i nomadi e il resto del popolo mongolo viaggia non solo sull’asse carbone-Cina, ma anche rispetto alle nuove generazioni, come mi spiega Pietro:
Oggi le nuove generazioni sono obbligate ad andare a scuola, a differenza del passato. Fin da piccoli conoscono - soprattutto a Ulan Bator - una realtà piuttosto moderna e tecnologica, e le nuove generazioni tendono a scegliere sempre di più di vivere in città. Il paradosso è che tante case della capitale includono al loro interno le gehr, le tipice tende dei nomadi: questo agli occhi dei pastori nomadi è un vero e proprio controsenso, ma è anche un simbolo di come la Mongolia tenti di aggrapparsi alle sue tradizioni in quella che sembra un’inevitabile tendenza alla graduale scomparsa del nomadismo.
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E per finire
La foto più aesthetically pleasing vista di recente:
Il libro da leggere a Natale: oggi la scelta è facile. Quando passa il treno. La Transmongolica da Mosca a Pechino, pubblicato dal nostro ospite di oggi.
Il podcast da ascoltare in macchina: Cose di Cop 27, un diario di ragazzi e ragazze di Trento che hanno seguito la conferenza da Sharm El-Sheikh.
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