Studenti in rivolta
#68 Mappe - Bangladesh 🇧🇩: la rivolta pacifica degli studenti repressa duramente dalla polizia. Una storia che affonda le radici nel 1971 e che c'entra con i posti di lavoro pubblici.
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Buenos Aires in Asia
Da diverso tempo volevo parlarti di Bangladesh su Mappe, se non altro per un curiosissimo legame tra il Paese asiatico e l’Argentina.
Quando la Nazionale di calcio argentina ha vinto gli ultimi Mondiali del 2022, le scene che si sono viste a Dacca - la capitale - erano simili, più che simili ai festeggiamenti che hanno invaso per giorni le strade di Buenos Aires.
La storia è lunga quasi quarant’anni, e risale all’odio comune che i due Paesi riversano nei confronti dell’Inghilterra: se per il Paese sudamericano tutto si riconduce alla guerra per le Malvinas, il Bangladesh venne creato nel 1947 in seguito alla spartizione dell’India proprio da parte dei colonizzatori inglesi.
Diverso tempo dopo la definizione dei suoi confini, negli anni Settanta arrivarono in Bangladesh i primi televisori, e così i primi eventi sportivi ancora in chiaro. La passione per il cricket ancora non era così fiorita come lo è oggi, e così i gol di Maradona all’Inghilterra nello storico Mondiale del 1986, vinto dell’Argentina, vennero seguiti da milioni di bengalesi che si appassionarono velocemente alla Selecciòn.
Decenni dopo, da Maradona a Messi: il filo tra l’Argentina e l’ottavo Paese più popoloso del mondo è più corto di quanto si pensi.
173 milioni di abitanti
Il Bangladesh è un Paese dell’Asia Meridionale che quasi interamente confina con quell’India da cui è stato separato proprio nella metà dello scorso secolo; il piccolo lembo di terra rimanente confina invece con la Birmania.
Di per sè, l’essere l’ottavo più popoloso non sarebbe un problema. Ospitare, però, 173 milioni di persone in una densità di circa 1.265 persone per km2 rappresenta un grattacapo non da poco; a Dacca, la densità raggiunge 45mila persone per km2.
Inoltre, questa densità è soggetta ogni anno agli effetti sempre più severi della crisi climatica, in una regione dove monsoni e inondazioni si alternano frequentemente. Il Bangladesh è il terzo Paese al mondo con il più alto rischio di sfollamento per cicloni e alluvioni, e si stima che nei prossimi anni fino a 10 milioni di persone saranno costrette ad abbandonare le proprie abitazioni per via degli effetti del cambiamento climatico.
Il diritto alla protesta
Partiamo da un assunto ben preciso che emerge dall’ultimo decennio socio-politico: il diritto alla protesta pacifica sta scomparendo a vista d’occhio. Lo dice anche un rapporto di Amnesty International del 2024: in Europa le logiche di controllo statali e un uso eccessivo della forza sta minando un sacrosanto diritto al dissenso non violento.
Una demonizzazione della protesta inaccettabile e che ritroviamo, in queste settimane, anche in Bangladesh.
Tutto nasce nel 1972, quando il governo bengalese aveva destinato una quota di impieghi pubblici ai familiari di chi aveva combattuto contro il Pakistan nella guerra d’indipendenza del 1971.
Una decisione che era stata bloccata nel 2018 dall’Alta Corte del Paese, e che ora verrà riesaminata dalla Corte Suprema in seguito al ricorso del governo guidato da Sheikh Hasina Wazed, al quarto mandato consecutivo.
Arrivano da qui le proteste che da due settimane stanno invadendo le strade del Paese e, prima ancora, i campus universitari. Chi si oppone a questa misura, in primis, sono infatti gli studenti, arrivando a includere una grande maggioranza di studentesse che non potrebbero lasciare i propri dormitori dopo le 21.
Repressione
Il sistema che il governo vuole ristabilire prevede di riservare fino al 30% (!) dei posti di lavoro nella pubblica amministrazione ai parenti dei combattenti. Tutto questo, in un Paese in cui ogni anno ci sono 400mila laureati che concorrono per 3mila posti nel settore pubblico, decisamente stabile e remunerativo.
Le proteste si sono estese a un più generale dissenso per l’attuale governo che rende il Paese più vicino a un’autocrazia che a una democrazia. Questo orizzonte cui tende si è rivisto anche nelle reazioni con cui le forze di governo e di polizia stanno tentando di reprimere l’ondata di proteste, ancor prima che diventasse di carattere violento come negli ultimi giorni.
Soltanto nell’ultima settimana, il governo ha chiuso tutte le scuole e università, e ha inoltre bloccato la rete mobile di Internet. Sono stati feriti dalle forze dell’ordine più di 5000 studenti, e i recenti scontri hanno portato la polizia ad aprire il fuoco: siamo arrivati alla sconvolgente cifra di 135 morti.
Anche nei prossimi giorni, le strade di Dacca e delle altre città saranno pattugliate dall’esercito, mentre per tutta la popolazione è stato istituito il coprifuoco: chi lo violerà, rischierà di essere ucciso. Nella speranza che questo uso indiscriminato della violenza non faccia crescere a dismisura il numero dei ragazzi uccisi, e che la censura presente nel Paese - è il 150mo Paese al mondo per libertà di stampa, dietro a Russia e Colombia - permetta comunque di mostrare delle immagini di una crudeltà inaudita.
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E per finire:
La foto più aesthetically pleasing vista di recente:
Alcuni articoli letti in questi giorni: i problemi di Parigi, a una settimana dalle Olimpiadi, su Linkiesta; la Nike è rimasta indietro nel mercato delle scarpe su Il Post; forse sta finendo il concetto di “coppia” su Lucy Sulla Cultura; Casapound ha vergognosamente aggredito un giornalista de La Stampa;
L’episodio di Mappe da rileggere: un anno fa negli USA si scatenava il fenomeno Barbenheimer;
Il podcast da non perdere: sono appena trascorsi ventitre anni dal G8 di Genova. Se non l’hai ancora fatto, è il caso di ascoltare Limoni di Annalisa Camilli.
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