Elezioni truccate
#74 Mappe - Venezuela 🇻🇪: i picchi vertiginosi di inflazione, Marìa Corina Machado e gli ultimi risultati elettorali architettati da Nicolas Maduro, con Michele Bertelli.
Ciao, buon martedì!
Stai leggendo Mappe, la newsletter che ti parla di storie, culture e persone. Ogni settimana, un Paese alla volta: per questa occasione, dopo l’ultima puntata sull’Argentina 🇦🇷 ci fermiamo di nuovo in Sudamerica.
Per ironia della sorte, questa puntata avrà molto altro in comune con l’Argentina.
Un altro Paese che nell’ultimo decennio ha toccato picchi spropositati di inflazione; un altro Paese in grave difficoltà economica, con le ultime elezioni politiche che sono finite sui quotidiani mondiali e di cui ci parla un graditissimo ospite: Michele Bertelli, giornalista ed editor di ISPI.
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Inflazione
Dunque, il Venezuela: la più grande riserva di petrolio del mondo.
Su Mappe era già comparso qualche puntata fa, quando - parlando di Guyana - ti avevo condiviso questo interessantissimo pezzo di Orizzonti Politici sul declino economico del Paese sudamericano.
I numeri del Venezuela sono spaventosi e me li conferma proprio Michele Bertelli, che ne segue da vicino le vicende:
Dal 2014 al 2021, gli economisti stimano che l’economia del Paese si sia contratta del 70%; dal 2013 ad oggi, di fatto, l’economia si è dimezzata: parliamo di una crisi spaventosa.
Nel 2018 l’inflazione è arrivata a toccare picchi del 65.000% (e le stime pensavano addirittura al 1.000.000%, ndr) e nell’ultimo decennio oltre 7 milioni di persone hanno abbandonato il Paese: la terza crisi umanitaria più consistente del mondo odierno dopo Siria e Afghanistan, due Paesi in guerra.
Marìa Corina Machado
In una situazione di questo tipo, è naturale che qualsiasi figura al governo non goda di estrema notorietà, mentre è facile che qualsiasi tipo di opposizione riscuota successo nell’opinione pubblica.
Nonostante l’andamento dell’ultimo decennio, dal 1999 il Venezuela vede al potere il PSUD (Partido Socialista Unido de Venezuela): prima con Hugo Chavez e poi con Nicolas Maduro, la linea degli ultimi venticinque anni è rimasta improntata su un socialismo conforme alla partecipazione popolare, e su una forte opposizione alla globalizzazione neoliberista degli USA.
Rimane fondamentale capire che, in Venezuela, una parte della popolazione è tuttora legata al regime. O per credo politico o per opportunismo, pur con i presunti risultati elettorali che vedono Maduro al 30%, non è certamente un regime arrivato alla fine del suo percorso politico.
Rimane la fiducia nel chavismo, di cui gode ancora lo stesso Maduro. E rimane la tendenza di apparati statali e degli alti ranghi militari a sostegno del partito al potere. In tal senso, i tanti programmi sociali che si sono susseguiti negli ultimi sono stati utilizzati anche come forma e garanzia di appoggio politico di diverse frange della popolazione.
In ogni caso, nonostante l’appoggio incondizionato e un’opposizione da sempre litigiosa, è stata una donna a emergere nel panorama politico avversario: Marìa Corina Machado, oggi 57enne.
Maria Machado è una politica di lungo corso, attivissima con comizi e manifestazioni all’ordine del giorno: aveva partecipato alle primarie democratiche del 2012 prendendo il 3% dei voti, e negli anni successivi le sue posizioni più radicali - rispetto agli altri partiti liberaldemocratici della Plataforma Unitaria - si sono ben sposate con la crescente crisi economica.
Proprio Machado, insieme a Edmundo Gonzàlez Urrutìa a capo della Plataforma Unitaria, si è resa protagonista delle elezioni presidenziali dello scorso 28 luglio.
Edmundo Gonzàlez Urrutìa, a differenza di Machado, è una figura meno radicale e critica dell’establishment:
Se Machado ha più volte chiesto l’intervento degli USA, per sanzionare e cacciare Maduro, e ha basato le sue proposte sulla privatizzazione della compagnia nazionale di idrocarburi, Gonzàlez Gurrutìa è una figura diplomatica, accademica e soprattutto moderata, che punta sul ricongiungimetno nazionale.
Nell’ultimo anno, è stata Machado a guidare di fatto la Plataforma nel periodo elettorale, ma per via del suo appoggio a Washington è stata inabilitata politicamente per quindici anni: era nota la sua impossibilità a partecipare ufficialmente alle elezioni, cui ha dato seguito nominando Gonzàlez Urrutìa come leader della coalizione.
Elezioni truccate
Da pochi giorni, Gonzàlez Urrutìa si è rifugiato in Spagna, in seguito all’emissione di un ordine di cattura per presunta istigazione alla violenta: una fuga che è simbolo della crescente ondata di repressioni perpetrata da Maduro, con l’appoggio dell’esercito.
Siamo a un mese e mezzo di distanza dalle elezioni di fine luglio, che hanno “ufficialmente” visto la vittoria di Nicolas Maduro nel Paese: elezioni assai probabilmente dettate da annunciati brogli e irregolarità, e da un esito finale - quello comunicato a Caracas dal CNE, Comunicato nazionale elettorale, dopo che il suo sito era misteriosamente inattivo da settimane - che vede Maduro al 51,2%.
I numeri pubblicati dall’opposizione, invece, vedono Gonzàlez Urrutìa al 67% e il presidente attuale al 30%:
Il sistema di voto venezuelano è interamente elettronico: da qui nasce la contesa sui verbali di voto, che già l’opposizione aveva attenzionato attraverso la conservazione delle ricevute elettoriali.
Da due mesi, l’opposizione chiede al CNE di pubblicare i registri di voto (actas eletorales), per sostanziare il risultato. Il sistema elettronico prevedeva, in teoria, l’impossibilità di irregolarità, ma si è verificato il contrario.
Brogli e irregolarità, inoltre, erano pre-annunciati dalla chiusura quasi totale delle elezioni a media e organismi internazionali: il Carter Center, unico ente internazionale di monitoraggio presente, non ha potuto che confermare l’irregolarità delle elezioni, così come mostrate dai numeri del CNE.
Scena internazionale
Così come nel caso dell’Argentina, è interessante andare a legare le faccende interne con l reazione dei principali attori internazionali. Al momento, più passa il tempo e più le possibilità dell’opposizione di dimostrare le irregolarità calano drasticamente:
Il dato fondamentale è che, oggi, Edmundo Gonzàlez Urrutìa è in Spagna, mentre Maria Corina Machado ha annunciato una nuova manifestazione nel giro di due settimane. Finora sembra che tutto ciò che è stato effettuato non ha avuto successo.
Tra i Paesi circostanti: se il Cile, con un presidente di sinistra, si è sempre dimostrato critico verso il Venezuela, sono Brasile, Colombia e Messico a poter influenzare il prossimo futuro.
Lula è alla guida di una potenza sudamericana, il Brasile, mentre Gustavo Petro alla guida della Colombia: entrambi possono giocare un ruolo chiave, dopo aver espresso una certa preoccupazione per la mancata ufficializzazione del voto elettorale.
Via via, le manifestazioni dissidenti in seguito all’architettato risultato elettorale si stanno dissipando sempre più. Proprio due giorni fa, nel frattempo, sono stati arrestati tre cittadini statunitensi e due spagnoli, con l’accusa di stare orchestrando un colpo di Stato.
Se a questo aggiungiamo che il Venezuela continua a versare in crisi, ma la situazione è oggi più favorevole di quella drastica del 2018 - le previsioni vedono un economia in crescita del 4% entro la fine dell’anno, l’inflazione è meno severa -, si può concludere che in questo momento Nicolas Maduro, tra brogli elettorali e dure repressioni, occupa saldamente la presidenza del Paese.
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E per finire
La foto più aesthetically pleasing vista di recente:
Alcuni articoli letti in questi giorni: la querelle tra Stati Uniti e Formula Uno su Ultimo Uomo; Kamala Harris ha stravinto il primo dibattito tv su Il Post; la Russia fornisce ancora gas all’Italia grazie all’Azerbaigian su Altreconomia;
L’episodio di Mappe da rileggere: la newsletter è sempre attenta alle elezioni più strategiche del globo. Proprio un anno fa, parlavamo di Polonia e di cosa attenderci dalle imminenti elezioni presidenziali.
Il podcast da non perdere: L’inferno della battaglia di El Alamein, con la voce narrante di Pablo Trincia.
Qualche settimana dopo
Una nuova mini-rubrica in cui, dopo un po’ di tempo, facciamo un follow-up su uno dei Paesi e temi trattati nelle precedenti puntate.
Ad Aprile avevamo parlato di Ruanda, e della decisione del governo britannico - allora primo ministro del Regno Unito - di deportare nel Paese africano gli immigrati illegali sbarcati sulle coste inglesi.
La notizia è molto semplice, oltre che consolatoria: il nuovo primo ministro laburista Keir Starmer, nel primo giorno di lavoro a inizio luglio, ha immediatamente posto fine al progetto di deportazione che aveva contraddistinto l’ultima battaglia politica dei Tories.
Starmer, però, sembra essere affascinato dai centri di immigrazione che l’Italia sta costruendo in Albania: il prodotto di un accordo tra i due Paesi che è stato contestato dallo Human Rights Watch.
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